Prime pagine dei quotidiani. Dibattiti alla tv. “Nuovo esodo dalle coste libiche: torna l’emergenza a Lampedusa”.
In ventiquattro ore ne sono arrivati 800, un barcone dietro l’altro. Così “le carrette del mare”, dopo aver attraversato il mare libico arrivano a Lampedusa.
Uomini, donne, alcune delle quali gestanti, e bambini tutti ammassati in questi grandi barconi, ma loro sono stati “fortunati”, sono arrivati vivi.
Tanti altri sono morti, qualcuno di sete altri di fame. Si sono salvati in pochi.
Un’emergenza senza fine, un’odissea per quanti hanno pagato più di mille euro per tentare di arrivare in Italia, alla ricerca di un lavoro e di un futuro migliore.
Io ero lì presente ad accoglierli. Che emozione vederli arrivare.
Ho lavorato come Psicologa, per quattro anni, presso il C.S.P.A di Lampedusa con famiglie ed individui immigrati di paesi diversi.
Si tratta di un lavoro di frontiera, entusiasmante e ricco di sfaccettature affettive che toccano insieme il personale, il familiare e il sociale.
Ottobre 2013, nuova strage a Lampedusa, più di 100 i morti, 150 i dispersi, 155 i superstiti. Mi sembra di ritornare indietro con il tempo.
Ancora oggi, dopo anni, quando vedo le immagini degli sbarchi di immigrati provo molte emozioni. Sento in me tanta tenerezza verso quei bimbi così impauriti e le loro madri con gli occhi così tristi che manifestano parecchia sofferenza.
Provo anche grande tristezza e rabbia perché dopo dieci anni non è cambiato niente. Un’emergenza che certo non è una novità. Infatti a giugno del 2003, ci fu una simile tragedia, un barcone con 250 immigrati naufraga al largo della Tunisia, 50 i corpi ritrovati, 160 i dispersi, 41 sopravvissuti.
Ogni anno il numero degli sbarchi di immigrati in Italia cresce notevolmente.
Non si può tenere il conto del numero dei morti, sia di coloro i quali, nei barconi, affondano nel Mediterraneo, sia dei morti sepolti tra le dune del Sudan o della Libia dove i cimiteri sono sparsi in un mare di sabbia.
Cimiteri ignoti. “Stragi del deserto” , quelle che il nostro mondo ignora, quelle troppo lontane, è quel pezzo di Africa che inghiotte migliaia di disperati vaganti, una sterminata tomba per i popoli
che migrano. L’Occidente conosce solo i barconi che affondano nel mare. Ma su quelli ci salgono solo i superstiti che sono riusciti ad attraversare il deserto per esempio dalla Somalia alla Libia. Questo viaggio tra le culture, mi ha permesso di essere osservatrice diretta della realtà del Centro di Accoglienza di Lampedusa e di trovare, una lente culturale critica per affrontare nuovi contesti sociali e culturali.
Per tale motivo vorrei ricordare che gli operatori che lavorano al Centro di accoglienza, quotidianamente, da dieci anni, vivono queste tragedie che parlano di morte, di guerre, di povertà e di disperazione, ma l’Italia come l’Europa ha una memoria storica troppo breve. Tutto si dimentica. Come dieci anni fa si parla di commozione, solidarietà, affinché nulla dovrà essere come prima, solo retorica. La politica che non ha trovato come agire per innalzare il livello di intervento e di azione.
L’Europa che dovrà impegnarsi ha regolarizzare una legge comune sull’asilo politico.
E noi operatori del Centro che non abbiamo il temo di piangere i morti, dobbiamo accogliere ed accudire I SUPERSTITI, che in alcune giornate superano numeri esorbitanti. Dobbiamo accettare il pianto come unica forma comunicativa e dare un valore a questo, perché in questo modo l’immigrato sente di essere accolto con tutto il dolore che prova. Gli devo stare vicino e trasmettergli con la mia serenità il calore e l’affetto di cui hanno bisogno, stando attenta ad accudire ogni loro piccola richiesta.
Chissà se questo accudimento e questa protezione che gli offro, per loro avrà la stessa valenza. Provo a chiederglielo con l’aiuto dell’interprete e mediatore culturale di origine marocchina. Così la signora accolta nella sua lingua d’origine mi sorride e ringrazia, e prosegue il suo racconto con maggiore spontaneità espressiva e relazionale.
Questa per me è la prima relazione di aiuto che gli posso offrire, relazione che non è fatta solo di parole ma anche di immagini, di significati del linguaggio non verbale, di gioco, di gesti, di silenzi, tutti codici di una comunicazione che attraversa le culture.